> Home Page

IL DIARIO DI MARIA PIA  
IL DIARIO DI MARIA PIA

Il diario di Maria Pia

Spettacolo di e con Fausto Paravidino

                            La Mariapia del titolo è un medico di campagna che, dopo una lunga malattia, è stata ricoverata in ospedale per non uscirne più. Lì ha perduto tutte le sue forze e, con esse, la vitalità con la quale per paradosso sperava di morire. Per far fronte a questa imprevista depressione il suo medico le ha consigliato di continuare a fare il suo lavoro, il dottore appunto, rendendo testimonianza della sua esperienza sanitaria.

                            Lo spettacolo tratto da questo materiale è una commedia che parla della vita quando si avvicina alla morte e dell’effetto che questo fa ai futuri superstiti. La cosa speciale di questo testo e di questa messa in scena è la ricerca della qualità di calma con la quale avvicinare l’orecchio ad un testimone di una fase straordinaria della vita, forse la più spaventosa, per cercare dei piccoli indizi sul segreto della vita, con la speranza che questa prospettiva ci possa dire qualcosa… e la cosa sorprendente è che oltre a commuoverci sa anche farci sorridere molto.

                                               

                                           Dice l’autore:

                                                Allora, la premessa è la seguente e cerco di non farla lunga: già malata da tempo, nel 2006, mia madre, Maria Pia Cristofolini, medico, da un giorno all’altro perde l’autosufficienza e viene ricoverata all’ospedale di Ovada (AL) per non uscirne più. Nell’ultimo mese e mezzo della sua vita le siamo vicini mia sorella, io, Iris (Fusetti) e numerose altre persone. Malata di Cancro, Maria Pia è da un po’ che si prepara a morire per cercare di finire la sua vita bene come ha sempre cercato di trascorrerla, ma in ospedale qualcosa non va per il verso giusto.

                                                La morte si presenta preceduta da una spossatezza imprevista e da una sensazione di vuoto completamente inedita per Maria Pia. Maria Pia si deprime. La depressione è l’unica cosa peggiore del cancro, e ci siamo dentro tutti. Ne parlo con la dottoressa Varese, la sua oncologa, che in passato aveva condiviso con Maria Pia il progetto di un libro di medici che raccontano la propria malattia, la Varese le parla e la motiva a raccontare la sua nuova esperienza di malattia affinché questa possa essere utile agli altri. Così Maria Pia torna ad essere medico, trova una spinta vitale e insieme cominciamo a scrivere un diario. Quando muore riordino gli appunti e li mando ad amici e parenti, suo fratello Cesare in cambio mi manda il suo di diario.

                                                Da allora ho sempre cercato il modo di tradurre questa materia in qualcosa di fruibile agli altri. Un po’ perché le esperienze trasformanti della mia vita sono la materia più attuale dalla quale io possa attingere, un po’ perché era implicito nel mandato dei diario stesso. Ho pensato di metterlo in scena tale e quale, ho provato a scrivere dei soggetti per il cinema e sono passati tre anni. Poi è arrivato il pretesto, una richiesta dell’istituto Italiano di Cultura a Stoccolma per una rappresentazione al Dramaten, il teatro di Bergman, regista caro a mia madre che mi aveva allevato nella contemplazione delle sofferenze di Liv Ullmann prima di mostrarmi le sue.

                                                Così ho scritto questa commedia per tre attori che interpretano più personaggi. Finalmente c’è un gioco teatrale che interagisce con la rappresentazione oscena del nulla e del biografismo. Un regista che mi conosce molto bene (Valerio Binasco) dice che io giro sempre attorno alla rappresentazione del nulla, e qui è proprio il Nulla con la N maiuscola a farla da padrone, solo che la esperienza non è mia, io guardo. E scrivo. Il gioco teatrale è che ci sono due ‘medium’, due testimoni, che abitano il teatro e che si abbigliano per rappresentare tutto il coro dei vivi che si relazionano alla donna che sta per morire.

                                                C’è poi un ribaltamento nella nostra messa in scena. Iris ed Io (attori e testimoni) interpretiamo tutti i personaggi (noi compresi) che interagiscono con Monica Samassa (attrice) che interpreta mia madre, che non conosceva prima di leggere la pièce. Sembra che funzioni, c’è una specie di scambio di ruoli che fa sì che la pièce riesca a vivere come pièce più che come testimonianza affrancandola dal ricatto emotivo che ne minaccia l’operazione “Guardate che è tutto vero!”.

                                                Dopo la prima di Stoccolma tra le altre cose ci hanno detto che gli era piaciuto vedere finalmente la possibilità drammatica che poteva avere la rappresentazione di una famiglia ‘normale’, niente stupri, alcolismi, incesti, incomprensioni mortali. Un parere (italiano invece) deluso perché sperava in qualcosa a favore dell’eutanasia. La storia, nel bene e nel male, è quella dei più. Una famiglia normale. Una donna che NON vorrebbe morire ma che non potendo fare altrimenti cerca di farlo meglio che può. E non è facile, ed è sufficiente ad un dramma. Il contesto, per contro, non è drammatico. Nessuno dei personaggi toccati dalla tragedia aggrotta le ciglia, la tragedia non lascia posto al formalismo, è quel che è, si ride e si piange, la vita continua anche quando sta per finire.

                                                Quello che cerchiamo di portare in scena è una festa del teatro e una sfida alla recitazione. Morire è dare piano piano l’addio alle cose che sapevamo fare. Diventar grandi attori è conquistarsi l’economia. Se noi non riusciamo più a muoverci, ad avere una vita sufficientemente autonoma, a parlare bene, a pensare bene, siamo ancora persone? Se noi facciamo lo stesso in scena siamo ancora attori? Pensiamo di sì, ma non lo diamo per scontato, è il lavoro che stiamo facendo.

                                                Qualcosa che abbiamo trovato nella scrittura e che stiamo cercando di seguire. La pièce comincia con uno spettacolo di Shakespeare, la festa del teatro per eccellenza, continua con dei virtuosismi, cambi di stile, passaggi di luogo, due attori che fanno una pletora infinita di personaggi, poi piano piano, a mano a mano che la protagonista perde le sue facoltà la cosa diventa più semplice fino ad arrivare a qualcosa di molto vicino al nulla, ma che invece è pieno di qualcosa. Trovare quel pieno, senza trucchi, è un esercizio teatrale difficile, è una grossa scommessa, è il senso della cosa.


ALLEGATI